Ruggero Facchin

Ruggero Facchin

Insonne a cura di Federica Viola
Oggi le immagini ci avvolgono, in esse ci immergiamo completamente e da esse veniamo catturati. Scompare la cornice e l’immagine diventa spazio immersivo in cui svanisce il medium. È ormai aperta la porta che separa mondo reale e mondo iconico. Tempo e spazio non ci appaiono più definiti. Il primo si disperde nella sua massimizzazione diventando solo il momento presente, il secondo non è più circoscrivibile, contenibile, dominabile ma diventa elemento plurivoco.
Emergono, dunque, rinnovate istanze esistenziali e pretendono risposte che le consuete modalità di approccio non possono offrire.
Ruggero Facchin, attraverso la propria arte, indaga in profondità questi aspetti della nostra contemporaneità, mostrando nuovi percorsi di armonizzazione.
In mostra sono presenti quattro serie, realizzate tra il 2017 e il 2023. Esse dialogano fra loro portando con sé il medesimo paradigma, ma declinato in modi differenti e così si fanno promotrici di un approccio diversificato e flessibile al reale.
Nella serie Sonno Lucido Facchin descrive, sulle tele, corpi levitanti immersi in una dimensione straniante. Sono sentinelle che vigilano sui nostri misteri, ambasciatori di una nuova visione, veggenti che predicono la nostra rivoluzione. Essi si posano sul limen tra dimensione razionale e dimensione irrazionale, tra sonno e veglia, vita e morte, dove gioca il nostro inconscio, si destreggia il bagliore onirico, una virtualità espressiva ancora non domata, che ci parla di Pan, del nostro istinto, che ci suggerisce enigmi la cui soluzione può dare vita a nuove metamorfosi e costituire la via verso quella spontaneità smarrita di cui l’essere umano inizia ad avere fame assoluta.
Nel suo stile l’artista mostra il proprio debito nei confronti della pittura tonale legata alla terra natia ma dà rilievo, altresì, alla dimensione disegnativa, figlia del mondo delle bandes dessinées da lui tanto amato. Da esso sono emersi alla sua attenzione artisti del fumetto quali Milo Manara, Hugo Pratt e Moebius. Disattendendo apertamente l’atteggiamento di distanza, tipicamente adottato dalla cultura ufficiale nei confronti del fumetto, egli si lascia ispirare da questa forma d’arte sublimandone la complessità nella propria opera.
Nella serie Teste l’artista, reinterpretando in chiave contemporanea la collezione di ritratti di uomini illustri dell’umanista Paolo Giovio, ci accompagna nell’esplorazione dell’identità di personaggi noti del mondo della letteratura, della musica e della filosofia, che lo hanno profondamente influenzato, ma anche di personaggi di fantasia che istintivamente lo scuotono. Egli scruta in profondità il soggetto e, attraverso l’atto espressivo, ne fa emergere unicità e irripetibilità. Anche in questo caso la tecnica è mista, ponderata in base al soggetto rappresentato. Lo sguardo non è definito alludendo ad occhi interiori capaci di smascherare. Pure questi uomini si fanno messaggeri, aruspici, sentinelle. Vibrano in dissonanza, imponendoci una ricerca profonda e faticosa per scoprire un equilibrio tra ragione e istinto. L’impeto dell’atto fisico che ha condotto alla creazione di questi ritratti traspare evidente, l’azione concreta suggella l’incontro dei due lati. La pittura, mentre elude la mediazione ideologica, manifesta la dimensione istintuale, essa è l’atto fisico che non sa mentire, mentre mette a nudo l’artista, smaschera chi osserva.
L’identità è indagata anche nella serie Ossario in cui l’artista esercita l’azione di ritrarre facendo emergere sembianze insolite, spesso trascurate, camuffate sotto la superficie, ma determinanti. Egli, sempre esplorando il confine tra vita e morte, dopo una visita all’Ossario di Custoza, inizia un’approfondita indagine sulla fisionomia di alcuni teschi lì custoditi. Ognuno ha un’identità irripetibile quasi mai sigillata da un nome, e Facchin intende risarcirla dell’esistenza perduta. Sceglie come strumento il disegno, optando per un ritratto che diserti gli schemi accademici e, salvaguardando l’aleatorietà e l’improvvisazione, mostri il risultato dello scarto tra l’immagine mentale iniziale e la capacità di darle una forma. In questo modo pone l’accento sull’indicibile che trapela dalle nostre scelte ma anche sull’importanza di riconoscere i propri limiti contemplata nell’esortazione gnothi seautón. Opponendosi alla proliferazione iconica e al conseguente processo di dissipazione in atto, l’artista pone in essere un’attività fabbrile con strumenti tradizionali. La dedizione con la quale muove a uno sforzo non solo mentale ma anche fisico diventa un invito, rivolto a ciascuno di noi, a prodigarci con impegno in un’indagine altrettanto concreta nei confronti di noi stessi, per risvegliare le nostre identità che stanno rischiando di dissolversi nella massa.
Nella serie Best Kept Secret, infine, l’andamento si inverte e il disegno interviene a rappresentazione conclusa e perfettamente chiarita anche per l’artista. La sperimentazione si sviluppa attraverso la decompressione di un’accumulazione di stimoli, attuata senza preliminari. Abbandonandosi alla solitudine egli lascia spazio ad un’osservazione non più solo visiva, ma aperta alla ricezione di impulsi differenziati, attraverso l’utilizzo di tutti i sensi. Per un paio d’anni Facchin cerca di limitare il suo campo d’azione per estendere quello delle ipotesi e radicalizzare un cambio di punto di vista. Lo fa servendosi esclusivamente di tutto ciò che gli si manifesta entro il raggio di un chilometro dal luogo in cui dipinge. Il bosco diventa una palestra per esercitare il segno. La flora partecipa all’atto creativo, gli animali diventano modelli di archetipi rappresentativi e, fra tutti, lo scarabeo, che protegge con una corazza le sue parti più delicate. Anche l’artista ne ha una, fatta di un linguaggio ermetico che lo difende sottraendolo dagli attacchi di chi subisce il timor panico destato dal suo lingiaggio artistico. Indossando la sua corazza egli ci invita a fare lo stesso per proteggere la fragile dimensione inconscia e con essa il nostro istinto. Nel mondo contemporaneo la razionalità ha provato a soggiogare l’inconscio ma esso si ribella esponendoci a disturbi che fatichiamo a riconoscere (nevrosi, attacchi di panico, burnout…). Siamo quindi chiamati a ricomporre la nostra identità e diventa essenziale comprendere che esso è necessario, è il nostro serbatoio di possibilità, ciò che, sfidando il nostro raziocinio, alimenta la nostra evoluzione.
Gli scarabei di Facchin animano gli stessi spazi di frontiera che abita l’insonnia, luoghi enigmatici, densi di simbologie archetipe che stimolano riflessioni introspettive. Coesistono con essi strutture architettoniche ieratiche e tassellazioni con moduli decorativi arabeggianti che suggeriscono arcane allegorie. Attraverso queste rappresentazioni l’artista reclama il ritorno alla dimensione del gioco “serio” del bambino, quello che aderisce alla metafisica. Chi schernisce il linguaggio artistico, di fronte ad esso, si troverà in debito di ossigeno, non riuscirà ad immergersi nell’abisso di concentrazione necessaria ai giochi impegnativi. Allo stesso modo, chi sottovaluta e segrega la dimensione dell’inconscio e dell’istinto è destinato a non poter accedere ad una completezza umana che, di fronte alle sfide contemporanee, presto sarà indispensabile aver ritrovato.
Federica Viola

Angelo Bordiga

ANGELO BORDIGA
Mi sono chiesta molte volte guardando i dipinti di Angelo Bordiga, da dove poteva nascere la poetica e l’ispirazione che avvertivo immediatamente osservando il disegno, la forma e il colore delle opere di questo artista amico nato a Bagolino in Provincia di Brescia.
Mi sono chiesta perché provavo attrazione e soprattutto se avrei appeso i suoi dipinti nella mia casa.
Da dove proveniva il riferimento culturale della sua pittura, era lecito paragonarlo al Pitocchetto della tradizione lombarda, o agli espressionisti tedeschi, oppure il suo dipingere era completamente privo di riferimenti storici o pittorici e forse la sua forte personalità, mascherata da timidezza, esprimeva soltanto il dilemma esistenziale della nostra vita?
Io penso, invece, che Bordiga sia riuscito a sintetizzare la storia della pittura del passato, dei grandi temi del novecento, degli artisti che ci hanno preceduto, con il mondo attuale, il mondo che qui e ora è di fronte a lui. Come non vedere la sua attenzione alle difficoltà dell’uomo moderno, isolato e indifeso contro il narcisismo, vuoto e sgargiante della banalità imperante? Come non capire che il suo mondo tormentato mostra i dubbi che si  trasformano in domande allo spettatore sulle questioni più profonde dell’esistenza?
Torniamo al fascino della sua pittura: per me è forte il richiamo alla pittura lombarda, “sempre fedele al vero” e in particolare al modo bresciano di fare arte, severo, silenzioso e meditativo, ma sempre con il cuore sulla coscienza, poesia rivolta non tanto agli umili, quanto agli uomini e alle donne di oggi.
Le sue figure sono esauste e logorate, afflitte e sfiduciate, rappresentate in una prospettiva allungata e deformata, (lezione dell’espressionismo), ad indicare la lontananza e la vicinanza di chi li vuole raffigurare e raccontare in una toccante partecipazione.
Il disegno è diligente e puntuale ma anche volutamente conciso, essenziale, soprattuto nelle linee dei volti spesso girati o nascosti, delineati con accordi di colore appena accennati, proprio per tracciare u n a rappresentazione attenta e misteriosa, preoccupazione e rispetto, non analisi psicologica individuale ma ricerca di un universale tragico.
Se rivediamo i quadri più famosi di Munch e Bacon, ritroviamo in Bordiga un modo nordico, drammatico che cerca di riconfrontarsi ostinatamente con la natura con un misto di sensualità e spiritualità, conflitto perpetuo espresso nei grumi di colore, nei gialli, nei blu cobalto e nei rossi accostati ai colori verde acqua, grigio, bruno, e soprattutto, nell’uso sapiente ed equilibratore del bianco.
S.C. della Galleria Spazio 6

Progetto Jesus

PROGETTO JESUS

La Galleria d’Arte Spazio 6 non ha addentellati o legami con istituzioni religiose, ha sempre
mantenuto una linea di laicità, perciò la scelta di un tema religioso nell’ambito della Pasqua è avvenuto in totale libertà.
L’invito di Giancarlo Zanini agli artisti che gravitano attorno alla Galleria, così come dimostra questa esposizione, è stato accolto con molto interesse e partecipazione. Ogni artista ha trattato il tema sacro secondo la propria sensibilità e visione culturale, cercando di esprimere non solo una valenza artistica, ma anche valoriale, conscio della profondità del tema affrontato. I modi dell’espressione artistica qui rappresentati vanno dal figurativo moderno, prevalente, all’astrattismo, al concettuale e all’elaborazione fotografica, anche se travalicano queste etichette in forme di espressione affatto personali.
Il tema del Sacro ha attraversato tutta l’arte occidentale e ne è stato una fondamentale
sorgente di ispirazione. I grandi nomi che mi vengono in mente di primo acchito sono Giotto, per la Cappella degli Scrovegni, il Beato Angelico del Convento di S. Marco e il
Michelangelo della Cappella Sistina; come Veneto penso al Tiziano che nella Deposizione
ritrae se stesso nelle vesti di Giuseppe d’ arimatea. Lo spirito religioso che anima queste
opere si fa sostanza stessa della pittura.
L’evoluzione dell’arte ha seguito, poi, quella del pensiero occidentale; dal Medio Evo fino
all’epoca attuale della scienza e della tecnica. La tematica religiosa è stata via via messa ai
margini; ma spesso l’effetto dell’abbandono di questo sublime tema ispiratore è stato un
certo processo di decadimento dell’arte stessa; questa è anche la tesi sostenuta dal critico e storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr.
Al giorno d’oggi, fare dell’arte sacra, è diventato un po’ come andare contro corrente.
Significa opporsi a quel tentativo di appiattimento e di conformismo culturale che ci viene
proposto e quasi imposto dal cosiddetto ‘pensiero unico’; come tutte le novità, anche questa viene dall’America e ha invaso l’Europa, nel tentativo di sradicare la nostra cultura, la nostra identità, per impoverirci e renderci meri soggetti adatti al consumismo.
A venire attaccato, naturalmente, è stato anche il nostro credo religioso: vivamente
consigliato dall’Unione Europea di mettere al bando perfino il nome del Natale, dopo averne affossato il significato religioso; si sconsiglia vivamente di nominare anche Giuseppe e Maria; senza considerare l’opera di distruzione nei confronti della Storia, del suo faticoso cammino, e del pensiero filosofico, ridotto a una materia inutile.
Perciò, a questo punto,il mio plauso va a Giancarlo Zanini, che ha saputo andare contro
corrente; perché questa mostra non presenta l’arte sacra come è stata interpretata dagli
artisti del passato, ma da quelli contemporanei; che si fanno testimoni e interpreti di una
fonte di ispirazione che è alla base stessa del significato della vita dell’uomo.
Perciò invito ciascuno dei presenti a prendere visione di queste opere, tutte eccellenti e
ricche di significato, e a farsene una personale opinione.
Franco Casati

Enrico Vucemillo

ENRICO VUCEMILLO

SIMUL

Le opere di Enrico Vucemillo superano l’idea di realtà per collocarsi in una dimensione “altra” infinita ed enigmatica. Tracce, dissonanze, stratificazioni tonali recuperano frammenti di tempo, memorie infrante  di lontane entità rivelatrici. Il  cammino evocativo dell’artista entra trionfalmente in quello stadio figurativo che vive tra un astrattismo colto e una ricerca di trasfigurata purificazione. Silenti armonie, dinamiche e vibratili, generano  una ricercata simultaneità di istanti sottesi tra variabili suggestioni cromatiche e inquiete profondità ideative. Il sensibile sentire dell’artista perpetua la sua intraprendenza figurativa nel rappresentare col colore la sua meditata riflessione nei confronti della materia pittorica. Significativa ed emblematica l’opera “Il sole mi costringe a dipingere” dove immagini recuperate dalla memoria vivono in una dimensione sospesa tra  indefiniti dinamismi e misteriose sublimazioni sequenziali generando alternanze tonali, agili tracce,  segmentazioni espressive. Vucemillo crea liberi percorsi figurativi dove individua  sul substrato sensibili impronte segniche, sovrapposizioni, frequenti intermittenze invitando l’interlocutore a condividere una comune percezione immaginativa, un affascinante viaggio  nella sua personale visione che noi definiamo astrazione dove trovare insieme condivise esperienze percorribili. L’artista frammenta la realtà in determinati fotogrammi, richiami sensoriali di “frame” percettivi evocati come chiavi di acquisite esperienze emotive dalle variabili astrali e luminescenti. Dinamiche distinte ma complementari veicolano le loro forze verso raffinate modularità alla conquista di un unico, irrevocabile equilibrio. “Simul” significa arrivare insieme,  cercare una connessione di appartenenza  evocando una tesi ma nel medesimo istante la sua antitesi alla ricerca di una necessaria armonia come livello superiore dell’essere, oltre i confini di tempo e spazio.

Profilo critico del Prof. Gianluigi Guarneri

Leonardo Rossi

Leonardo Rossi
veronese di nascita, riminese per amore,  ama l’acqua e non solo.
Ama la pietra, quella lieve e accudente che ritrova a Verona come amante in attesa, consunta nei ponti, nelle strade, nelle piazze, nei palazzi, nei campanil del suo venire al mondo.
L’una fluida, l’altra statica, non importa.
Ama l’acqua, ora di fiume, ora di mare, ora quieta, ora tempestosa, non importa, gli è dentro.
Nato con il rumore del fiume, con lui scorre, attraversa, arriva al mare,  all’amore.
Adagiato al suo scorrere, ripercorre quei ponti, quelle strade, quelle piazze, quei palazzi, quei campanili, come ricordi del cuore.
Oggi, nel suo scorrere, si adagia alla complessità espressiva di un pastello secco, di un olio, linguaggio di cui è maestro quando
racconta di sé e del mondo a lui caro.
E’ proprio quel segno asciutto e visionario a contraddistinguere le sue opere e che definirei, senza tema di smentita, sua cifra artistica.
L’inconfondibile rappresentazione di una quotidianità popolata di persone, architetture, abitudini, piccoli piaceri, scorci identitari, rivelano
un’attenzione rara per l’ambiente e la sua umanità.
E’ fondamentale, per l’artista e l’uomo, stabilire e interiorizzare il buon rapporto con la città in cui ha vissuto o vive.
Moreno Mondaini

Angelo Bordiga

Mi sono chiesta molte volte guardando i dipinti di Angelo Bordiga, da dove poteva nascere la poetica e l’ispirazione che avvertivo immediatamente osservando il disegno, la forma e il colore delle opere di questo artista amico nato a Bagolino in Provincia di Brescia. Mi sono chiesta perché provavo attrazione e soprattutto se avrei appeso i suoi dipinti nella mia casa.  Da dove proveniva il riferimento culturale della sua pittura, era lecito paragonarlo al Pitocchetto della tradizione lombarda o agli espressionisti tedeschi, oppure il suo dipingere era completamente privo di riferimenti storici o pittorici e forse la sua forte personalità, mascherata da timidezza, esprimeva soltanto il dilemma esistenziale della nostra vita?  Io penso, invece, che Bordiga sia riuscito a sintetizzare la storia della pittura del passato, dei grandi temi del novecento, degli artisti che ci hanno preceduto, con il mondo attuale, il mondo che qui e ora è di fronte a lui.  Come non vedere la sua attenzione alle difficoltà dell’uomo moderno, isolato e indifeso contro il narcisismo vuoto e sgargiante della banalità imperante? Come non capire che il suo mondo tormentato mostra i dubbi che si trasformano in domande allo spettatore sulle questioni più profonde dell’esistenza? Torniamo al fascino della sua pittura: per me è forte il richiamo alla pittura lombarda, “sempre fedele al vero” e in particolare al modo bresciano di fare arte, severo, silenzioso e meditativo, ma sempre con il cuore sulla coscienza, poesia rivolta non tanto agli umili quanto agli uomini e alle donne di oggi. Le sue figure sono esauste e logorate, afflitte e sfiduciate, rappresentate in una prospettiva allungata e deformata, (lezione dell’espressionismo), ad indicare la lontananza e la vicinanza di chi li vuole raffigurare e raccontare in una toccante partecipazione. Il disegno è diligente e puntuale ma anche volutamente conciso, essenziale, soprattuto nelle linee dei volti spesso girati o nascosti, delineati con accordi di colore appena accennati, proprio per tracciare una rappresentazione attenta e misteriosa, preoccupazione e rispetto, non analisi psicologica individuale ma ricerca di un universale tragico. Se rivediamo i quadri più famosi di Munch e Bacon, ritroviamo in Bordiga un modo nordico, drammatico, che cerca di riconfrontarsi ostinatamente con la natura con un misto di sensualità e spiritualità, conflitto perpetuo espresso nei grumi di colore, nei gialli, nei blu cobalto e nei rossi accostati ai colori verde acqua, grigio, bruno, e soprattutto, nell’uso sapiente ed equilibratore del bianco.

S.C. della Galleria Spazio 6

Queen Bee

Queen Bee, reverse engineering art

“This age of ours excels in dismantling structures and liquefying models, every type of structure and every type of model, with randomness and without notice”
Zygmunt Bauman, Liquid Modernity

See the project: https://www.queenbee.art

Susan Weller

SUSAN WELLER

LA POESIA DEI MURI

Due sguardi sull’Italia, due donne che venendo dalla California vedono il nostro Paese con occhi nuovi, due donne che hanno scelto due mezzi espressivi diversi, una la parola e l’altra il colore. Restando entrambe dentro un universo poetico, dentro un mondo espressivo lirico ed emozionante. E in questo omaggio alla cugina poetessa Roberta Spear (1949-2003), Susan Weller compone dipinti dove parola e colore si incontrano. L’Italia per Susan Weller si riflette e si identifica in quello che i suoi muri raccontano. I muri sono stati oggetto della sua attenzione da tempo, non so quando sia iniziato, ma credo che il suo interesse affondi le radici nelle frequentazioni europee, con viaggi e studi che in Susan risalgono ad un’epoca giovanile. Il muro rappresenta l’essenza stessa di quella stratificazione storica che differenzia profondamente la sua cultura di provenienza dalla nostra. Il muro che le interessa non è però quello che ha attirato l’attenzione degli artisti pop, o di nouveaux réalistes come Mimmo Rotella che vi andava cercando per i suoi décollage gli accumuli di manifesti sovrapposti nel tempo. Il muro che le parla è un muro antico, i cui intonaci trasudano storia, dove si intravedono ancora tracce di affreschi, di decorazioni, sono muri cotti dal sole, che fanno parte di una stratificazione architettonica e storica, che imprigionano e restituiscono calore. E se si guarda all’evoluzione dei suoi dipinti in questi ultimi anni, si vede che Susan sembra avere scaldato ancora di più la sua materia cromatica, rendendo anche maggiormente tattile la superficie dei suoi dipinti, quasi sensuale, con l’introduzione di carte che reagiscono diversamente dalla tela sia al colore che alla luce. La carta incollata sulla tela si increspa e non lascia che il colore si distenda in maniera regolare, formando sul suo cammino trasparenze e densità. Il suo mondo è sempre più lontano dall’astrazione e sempre più vicino ad una matericità concreta nella quale si nasconde, in maniera del tutto accidentale come lei stessa spiega affascinata da questa casualità, la bellezza che Susan cerca avidamente con gli occhi.
E ora arriva anche il suo interesse per le parole, che possono essere lettere graffiate, resti di fogli incollati, oppure parole che dalle poesie di Roberta Spear migrano idealmente nella pittura di Susan, trovandovi uno specchio in cui riflettersi. Susan e Roberta si incontrano proprio qui, in quella capacità di “trasformare le cose normali della vita quotidiana in racconti prodigiosi” come spiega Philip Levine nell’introduzione all’ultima raccolta di poesie di Roberta Spear intitolata “Nel mondo che verrà”. “Nel mondo che verrà- aveva scritto Roberta- io sarò quella/ che spalancherà sempre gli scuri verdi incurvati/per far entrare la luce del sole nella stanza[…]”. Di nuovo il sole, quello che cuoce gli intonaci che rapiscono Susan, ma anche quello “che si sta risvegliando nell’alta culla di pietra del Mottarone”.
Camilla Bertoni

Gustavo Diaz Soza

Gustavo Diaz Soza

Nasce il 20 luglio 1983 nella città di Sagua la Grande, Cuba.
All’età di 9 anni la sua famiglia si trasferì a L’Avana. A 15 entra all’Accademia Nazionale di Belle Arti “San Alejandro”. Utilizza tutti i tutti i tipi di materiale che trova a portata di mano, anche quelli rottamati. Lavora e gioca nello stesso tempo. Nel corso di questi anni, prepara diverse mostre personali e riceve giudizi positivi dalla critica cubana e dalla stampa.  E’ coinvolto in progetti di gruppo e partecipa alla preparazione di murales vari. Viaggia anche con altri artisti a Quito, in Ecuador, dove si inserisce in uno spettacolo presso la Cappella di Man, in omaggio al pittore Oswaldo Guayasamín. Si reca anche in Italia dove ha è invitato presso il Liceo Artistico di Torino.

Si è laureato con titolo d’oro nel 2002 e nel 2004 ottiene una specializzazione post-laurea. Inizia a praticare come insegnante di Belle Arti e si trasferisce il suo studio in centro della città. Gustavo inizia la vita come artista freelance. Gustavo è ormai un artista indipendente, che si fa strada lentamente tra i suoi contemporanei. Il resto è storia recente, Lavora a Madrid, Barcellona, San Sebastian, New York e in alcune città della Germania.

Nicola Nannini

Nicola Nannini

Nicola Nannini, nato a Bologna il 6 giugno 1972, frequenta il liceo classico di Cento (Ferrara) e successivamente si diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. In seguito si dedica con tenacia all’esercizio del disegno e della pittura, alla riscoperta delle tecniche e dei materiali della grande tradizione e scuola del “secolo d’oro”. Inizia così un viaggio tutto personale nella storia dell’arte, tentando di ricostruire la “forma sfaldata” del Novecento in un percorso tecnico e poetico a ritroso; percorso che lo porta dal Picasso blu e rosa fino a Rembrandt, Velàzquez ed El Greco, passando per Boldini, Carriere, Degas e, soprattutto, per la secessione viennese di Klimt e l’espressionismo austriaco di Schiele e Kokoschka. Particolare attenzione la dedica alla rielaborazione delle teorie spaziali cubiste, soprattutto nelle strutture delle vedute dove unisce più punti di vista simultaneamente, aprendo come una “scatola” città e piazze alla maniera del disegno infantile, non rinunciando alla figurazione classica e al volume.

 Alberto Agazzani