Gustavo Diaz Soza

Gustavo Diaz Soza

Nasce il 20 luglio 1983 nella città di Sagua la Grande, Cuba.
All’età di 9 anni la sua famiglia si trasferì a L’Avana. A 15 entra all’Accademia Nazionale di Belle Arti “San Alejandro”. Utilizza tutti i tutti i tipi di materiale che trova a portata di mano, anche quelli rottamati. Lavora e gioca nello stesso tempo. Nel corso di questi anni, prepara diverse mostre personali e riceve giudizi positivi dalla critica cubana e dalla stampa.  E’ coinvolto in progetti di gruppo e partecipa alla preparazione di murales vari. Viaggia anche con altri artisti a Quito, in Ecuador, dove si inserisce in uno spettacolo presso la Cappella di Man, in omaggio al pittore Oswaldo Guayasamín. Si reca anche in Italia dove ha è invitato presso il Liceo Artistico di Torino.

Si è laureato con titolo d’oro nel 2002 e nel 2004 ottiene una specializzazione post-laurea. Inizia a praticare come insegnante di Belle Arti e si trasferisce il suo studio in centro della città. Gustavo inizia la vita come artista freelance. Gustavo è ormai un artista indipendente, che si fa strada lentamente tra i suoi contemporanei. Il resto è storia recente, Lavora a Madrid, Barcellona, San Sebastian, New York e in alcune città della Germania.

Nicola Nannini

Nicola Nannini

Nicola Nannini, nato a Bologna il 6 giugno 1972, frequenta il liceo classico di Cento (Ferrara) e successivamente si diploma all’Accademia di Belle Arti di Bologna. In seguito si dedica con tenacia all’esercizio del disegno e della pittura, alla riscoperta delle tecniche e dei materiali della grande tradizione e scuola del “secolo d’oro”. Inizia così un viaggio tutto personale nella storia dell’arte, tentando di ricostruire la “forma sfaldata” del Novecento in un percorso tecnico e poetico a ritroso; percorso che lo porta dal Picasso blu e rosa fino a Rembrandt, Velàzquez ed El Greco, passando per Boldini, Carriere, Degas e, soprattutto, per la secessione viennese di Klimt e l’espressionismo austriaco di Schiele e Kokoschka. Particolare attenzione la dedica alla rielaborazione delle teorie spaziali cubiste, soprattutto nelle strutture delle vedute dove unisce più punti di vista simultaneamente, aprendo come una “scatola” città e piazze alla maniera del disegno infantile, non rinunciando alla figurazione classica e al volume.

 Alberto Agazzani

Raimondo Lorenzetti

Raimondo Lorenzetti, prestigiatore di sogni

Magico, Raimondo Lorenzetti. Candido, ma di ineccepibile puntualità, quando di sé dice tutto quello che potrebbe dire: “ho 59 anni, autodidatta, non seguo nessuna corrente, tutto quello che dipingo è frutto della mia fantasia”.
Sintesi lapidaria, da futuro epitaffio, tecnicamente perfetta. Cosa c’è bisogno di sapere di più per capire le sue opere? Niente, col che il mio ruolo di “introduttore” critico si potrebbe dire esaurito prima ancora di cominciare.
Se proprio si volesse aggiungere qualcosa alla sintesi perfetta di Lorenzetti, visto che è lui stesso a chiederlo, direi che, fra l’indicazione dell’età e la condizione di autodidatta, avrei considerata opportuna la presenza di un epiteto che ne avesse segnalato non tanto la provenienza geografica, ma, piuttosto, la condivisione di una particolare vocazione spirituale: “padano”. Padani, più ancora centro-padani, sono gli umori lirici di Lorenzetti, la sua disposizione sentimentale a controbilanciare la piattezza, l’irritante uniformità del territorio in cui vive, con la variabilità senza freni della attività fantastica dell’inconscio, su cui si apre una finestra che ci introduce nella dimensione dell’imprevedibile, dell’epifania che si manifesta per visioni misteriche, bizzarre, di interpretazione mai univoca, aeree nella loro inconsistente aderenza al terrestre, serene nella loro ordinaria mostruosità. La realtà viene ribaltata nel principio di ragione, annullata nella forza di gravità, rimescolata con un gioco infinito di tarocchi in cui tutti tutto può essere allo stesso modo vincente e perdente, bello e brutto, buono e cattivo, con storie mai concluse che ne rincorrono altre, incubi che diventano favole e favole che diventano incubi, continuamente, neanche darci il tempo di provare le sensazioni corrispondenti. Ciò che conta, in queste storie senza storia, in questi voli a mezz’aria senza una meta precisa, è altro, la capacità di ogni singola comunicazione visiva di sorprenderci, di spaesarci, anche di impressionarci negli accostamenti più mostruosi, nelle compenetrazione di colpi e di cose apparentemente inconciliabili fino a suggerirci la possibilità che quei tarocchi nascondano un significato recondito, oscuro, ma rivelatore del tutto come la ragione non sarebbe in grado di fare. Padano è il surrealismo di Lorenzetti, imparentato a quello dei piacentini e di tutti gli altri artisti dell’area di provenienza e formazione varia, che, dal soggiorno ferrarese di de Chirico in avanti, hanno percorso sentieri del visionarismo, per ereditarietà ideale piuttosto che diretta, per affinità di anima piuttosto che di sangue, di gusto piuttosto che di forma. Lorenzetti non ha padri legittimi, né vuole averli; gli basta essere figlio della grande madre, questa è la cosa più importante, essere il fratello di fratelli mai conosciuti, generato autonomamente da loro presso altre case, chissà quando, chissà in quale circostanza. E anche quando nella pittura dell’ultimo quindicennio, denuncia un mutamento stilistico, una maggiore maturità espressiva che dall’istintivo primitivismo della prima produzione è giunto a concepire forme più compiute che sembrano rivelare la conoscenza di alcuni mesi manifestazioni tipiche del rappel a l’ordre italiano per es. il Carrà di Valori Plastici, il Novecento di Oppi, il Realismo magico di Usellini e Donghi, Lorenzetti preferisce rimarcare la coerenza con se stesso e con il proprio inconscio, unica, grande fonte esplicativa delle sue poesie pittoriche. Ciò che muta più significativamente, semmai, e la consapevolezza del gioco onirico che viene accelerato, talvolta anche con cinismo e spietatezza, nel tentativo di ottenerne esiti sempre più imprevedibili, volteggi ed acrobazie aeree sempre più sprezzanti della gravità terrestre, compenetrazione sempre più costose, espressione sempre più mostruoso, espressioni sempre più urlate.
Dovremmo rimanerne maggiormente impressionanti, e invece, dopo un frisson iniziale, torna a prevalere l’aurea atarassia della narrazione immaginifica, l’ammaliamento del girotondo infinito che non smette mai di incantarci, anche se senza mai travolgerci.
E’ forse quel brivido iniziale di vertigine, quel senso di baratro più duro momento, prima del ritorno alla serenità dell’imprevedibile ordinario, il nuovo obiettivo lirico Lorenzetti, il traguardo espressivo a cui volutamente mira.
Nell’avvertirlo, ci sentiamo come serpenti ammaestrati che escono dalle ceste, attoniti, sorpresi della nostra debolezza, incapace di resistere al fascino delle musiche suonate da flautista Lorenzetti, anche quando non sono più in attese. Musiche che sappiamo senza fine, ma che seguiamo sempre come se ne attendessimo l’improbabile conclusione, contenti di essere caduti nel solito tranello, per l’ennesima volta.

VITTORIO SGARBI

Ferdinando Coloretti

Ferdinando Coloretti

Espone ancora a Verona l’artista Ferdinando Coloretti, che opera dagli anni ’70 a Parigi ma già presente in Italia alla galleria del Naviglio, a Milano e Venezia, e allo Studio S – Arte Contemporanea di Roma.
Dopo un percorso che lo ha portato dalla mitologia alle ricerche sull’identità, presenta ora questo suo nuovo opus influenzato dal tema del viaggio e dalle sue metamorfosi. Cut-up: tagliare a caso è il titolo generale che riunisce collages, fotografie e lavori su tela. Una presentazione come un carnet di viaggio che ci porta dal Cairo a Benares via Tangeri, avendo come piacere la scoperta e come guida l’estrema esigenza. È precisamente nella discontinuità e nella frammentazione che si compie l’unità del suo discorso. Una presentazione bilingue di Paola Azzolini è disponibile in galleria.

Nato a Villaminozzo (Re) nel 1947, Ferdinando Coloretti dal 1969 risiede a Parigi. Si diploma all’Istituto Statale d’Arte di Reggio Emilia. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Bologna, poi segue i corsi a l’École Nationale Supériore des Beaux Arts di Parigi abbandonando gli impegni didattici per dedicarsi unicamente all’attività artistica.
Ha costantemente sviluppato un personale itinerario di ricerche artistiche attraverso cicli pittorici. Dal periodo onirico, Metamorfosi, ricerca spiritualeprimo opus, Mandala-Memento Mori, mitologiae il doppio, I giardini di Adone, il Concilio degli dei, identità e l’altro, l’Exil Intime, all’attuale ciclo viaggi, Cut-up, Oracoli e Viatici Pellegrini. I territori inesplorati dell’anima e del viaggio sono oggi la sua nuova forma di energia, dove la scelta della curiosità ha privilegio sull’esperienza e il punto di partenza di un’opera ha altrettanta importanza che la sua realizzazione.

 

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Gianmaria Colognese

Gianmaria Colognese

Negli anni ’60 partecipa a una collettiva tenutasi alla Galleria Notes e alla rassegna nel Palazzo della Gran Guardia organizzata da associazioni universitarie. La frequentazione della veronese Galleria Ferrari offre l’occasione per incontrare artisti italiani tra cui Lucio Fontana ed Emilio Vedova, frequentato a Venezia durante gli studi universitari. Laureatosi in Architettura a Venezia nel 1972, dove ha modo di frequentare le lezioni di Carlo Scarpa e Mario De Luigi, intraprende l’attività di architetto, designer, pittore e scultore. Il viaggio a Chicago e a New York nel 1983, l’amicizia con lo scultore Virginio Ferrari ivi residente offrono stimoli fondamentali per maturare e consolidare una nuova coscienza artistica. Nel 1986, dopo la personale Immagine, Progetto, Tessitura a cura di Luca Massimo Barbero tenutasi alla Galleria Cinquetti di Verona, espone in Svizzera alla Galerie Farel a Aigle con cui proseguirà il rapporto di collaborazione. Nasce in questo periodo l’amicizia con Ugo La Pietra, Alessandro Mendini e Nanda Vigo, con cui parteciperà a molte esposizioni di arte-design. Dopo aver sperimentato la ceramica, nel 1990 propone una selezione di sculture in raku alla Galleria Ricci Oddi di Piacenza. Nel 1993 sperimenta per la prima volta il plexiglas nell’opera Mandala esposta al Museo d’Arte Moderna dell’Alto Mantovano a Gazoldo degli Ippoliti, nella mostra Le Materie Inventate: la plastica nell’arte, che riunisce lavori tra gli altri di Arman, Bonalumi, Cesar, Gilardi, Munari e Vedova. In questi anni sviluppa interessi verso nuove tecniche e materiali quali l’alabastro a Volterra, il mosaico a Spilimbergo e il vetro a Murano.

Dal 1994 è docente presso l’Accademia Cignaroli di Verona, dove dal 1998 è titolare della Cattedra di Plastica Ornamentale e negli anni 1998-99 e 2002-03 è Vice Direttore. Dal 1996 è corrispondente della rivista “Artigianato”. Nel 2001 fonda con due colleghi la Scuola dì Design approvata dal MIUR. Dal 1989 partecipa, come designer e artista, alle mo­stre culturali della fiera veronese “Abitare il tempo” in qualità di autore e curatore e a manifestazioni nazionali ed estere. Sue opere sono nelle collezio­ni della Fondazione Domus per l’Arte Moderna e Con­temporanea, nelle sedi del Gruppo Manni e della Ditta Biondani a Verona, nel Parco Hotel Bellevue S. Lorenzo a Malcesine, nel parco sculture Ditta Menin a Treviso, nella collezione del Gabinetto Stampe e Disegni del Museo di Castelvecchio a Verona, al MAAM Museo delle Arti Applicate nel Mobile Contemporaneo, Fondazione Aldo Morelato, Villa Dionisi a Cerea (VR), nella Pinacoteca Civica del Comune di Russi (RA), nella Collezione di Cà la Ghironda (Fondazione Martani) Bologna, al MAGI 900 (museo d’arte delle generazioni italiane del ‘900) – Pieve di Cento–BO e in varie collezioni private italiane e straniere.

 

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Gianfranco Gentile

Gianfranco Gentile

Personale

 

L’archeologia industriale di Gianfranco Gentile è un’operazione di recupero complessa perché globale.
Il suo lavoro va a riscoprire elementi iconografici di un passato cronologicamente non così distante dal nostro presente, eppure già oggetto di “scavo”. 
Senza dilungarsi troppo in ragionamenti sul significato e l’importanza del macchinario industriale per la società e l’arte del secolo precedente, conviene fermare la nostra attenzione concretamente sulle opere di Gentile.
I suoi pannelli, dalle forme non standardizzate, ma imperfette ed eccessive, offrono allo spettatore lo spettacolo della tecnologia della macchina. 
Parti e componenti meccanici non solo raffigurati, ma indagati con lenticolare precisione, dettaglio per dettaglio, grazie ad una sorprendente abilità nell’uso del colore a pastello, in grado di esaltare sia il freddo grigio dell’acciaio e del ferro, sia il rosso aranciato della ruggine, senza mai darci la percezione di una monocromia. 
Tutto è vivo grazie ai netti contrasti di luce ed ombra, che definiscono la profondità dei macchinari, in un gioco illusorio ancora più intrigante proprio perché vicino all’iperrealismo.
Linee, dettagli, viti, bulloni, ingranaggi emergono nitidamente dalla struttura della macchina.
I punti di vista ravvicinati e parziali, frammentano gli oggetti e li rendono non più totalmente riconoscibili, ma soltanto intuibili, come se l’artista volesse, consapevolmente, non rappresentare, ma evocare, attraverso pezzi di un passato decontestualizzato, riciclato, un nuovo mondo futuribile. 
La perfetta omogeneità del supporto completa e rende ancor più significante l’intento dell’operazione. Le righe parallele del cartone, con la loro tangibile tridimensionalità, fanno da controcanto all’immaginaria concretezza del soggetto dipinto.
Il colore uniforme ed etereo dello sfondo ricorda un paesaggio lunare, un oceano di silenzio, in cui fluttuano relitti vuoti, giganti metallici, un po’ come la danza delle astronavi nel film “2001 Odissea nello spazio”.
Idoli venerati da una civiltà ormai conclusa, ma fatta rivivere da questo artista che sfronda l’eco del passato dall’esaltazione modernista della potenza della macchina, lasciando però intatta la bellezza del congegno, delle linee, della forma.

Alice Zamberlan

 

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Ada Zanon

Ada Zanon

Per  Ada Zanon riportiamo una testimonianza dell’amico Leonardo Cremonini:
Carissima Ada,
da tanto tempo la pittura è stata l’elemento determinante della nostra amicizia, delle nostre complicità. Mezzo secolo ormai. Ci sono lacune nella nostra reciproca conoscenza, lasciate dalla distanza delle nostre residenze; ma percorrendo a ritroso i ricordi della tua pittura rivedo con frequenza gli oggetti amati nella tua infanzia, quando l’infanzia disegnava e “disognava”
Quando la bambola e il trenino, insieme ai disegni infantili e disinvolti, sono già le strategie con cui si dà forma alla vertigine inconscia del mondo che comincia. I tuoi giardini deserti sono quelli che nell’infanzia erano abitati dall’immaginario imprevedibile. Giardini e non foreste, dove l’età dell’albero è anche quella dell’uomo. Forse col tempo questi giardini si sono anche svuotati dei loro sogni per divenire, involontariamente, la scena di un’assenza, dove i ricordi, indebolendosi, non potevano più esserne gli attori. Nell’ultimo giardino, il più bello, la scena sparisce pure, per lasciare sul palcoscenico le rughe di un labirinto dove la memoria è già smarrita.
E’ una sorpresa come volti la pagina con gli autoritratti, ma solo per rinnovare la tua tensione.
Il labirinto di un volto, il nostro allo specchio, è anche lui un giardino dove l’infanzia non c’è più, ma dove vive un desiderio di essere e di capire che è tutt’ora il profumo di un infanzia recidiva. E così in questi volti, che molto spesso sono il tuo, con sensibilità e accuratezza percorri i solchi della pelle, lo spiraglio di una bocca che quasi respira, quegli occhi che ti guardano; ma spesso a frammenti ritrovati, per poterti anche un pò smarrire in uno spazio che è “disertato” da un’ infanzia ormai lontana. Ti metti di fronte a te stessa, alla tua utopia, e, col silenzio inesorabile del tuo sguardo, il miracolo complesso del tuo volto ti appare con la sorpresa di un monumento, come se fosse quello di tua nonna. Ancora un giardino deserto, una bambola che non gioca, una pittura che giustamente si anima soprattutto del nostro desiderio giocando ancora insieme,

Leonardo